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I PIEDI SULL’ANIMA
Ogni qualvolta distoglieva gli occhi dal monitor, Luca ammirava incantato il prezioso poggiapiedi sotto la scrivania di Chiara. Osservava e invidiava quel banale oggetto in metallo e plastica, pregustando, trepidante, il momento in cui la collega se ne fosse servita.
Assunto da quattro mesi, era sempre il primo ad arrivare in amministrazione. Tutte le mattine varcava la soglia dell’ufficio alle 8:30 in punto, prendeva posto alla sua scrivania, accendeva il pc e si gustava la quiete prima della nevrotica frenesia lavorativa.
Fin dal primo giorno di lavoro, Luca fantasticava sulla sua stupenda collega, amava sentirsi suo sottoposto, e il fatto che Chiara fosse la nipote del proprietario di quella grande azienda non faceva che rafforzare questa sua certezza.
Nel totale silenzio, ogni mattina resisteva a fatica alla tentazione di strisciare fino alla scrivania della collega, afferrare il poggiapiedi e iniziare a pulirlo avidamente con la lingua.
Il vietarsi tale gioia, però, aumentava l’eccitazione e l’impaziente attesa di vedere Chiara entrare in ufficio, occupare la sua scrivania e poggiare i piedi su quell’oggetto privilegiato.
In quei mesi, per tre volte Luca si era avvicinato alla piccola pedana in plastica e, dopo averla portata quasi a sfiorare le labbra, venne meno, sofferente, al suo compito.
“Poco sporco” si giustificava ogni volta. “Lo faccio domani, così si aggiungerà il lerciume che lascerà oggi”.
Ma la lingua e le labbra del ragazzo non trovarono mai il coraggio di sfiorare quell’oggetto sacro.
Alle 9.00, puntuale come ogni giorno, il lieve fruscio delle porte dell’ascensore in apertura, anticipò una cadenza decisa di tacchi sul parquet del corridoio che porta alla stanza in cui si trovava il ragazzo.
Ogni passo era per Luca un colpo di frusta al cuore, capace di rendere il suo respiro irregolare e carico d’ansia.
“Ciao caro” pronunciò Chiara varcando la porta.
“Buongiorno!” rispose con tono gioioso il collega, seguendola con lo sguardo, passo passo, fino alla sua scrivania.
L’atletico fisico minuto e i modi di fare allegri ed esuberanti ringiovanivano di parecchi anni la donna quarantenne.
Quel giorno indossava un vestito di lana a collo alto, grigio, lungo appena sopra il ginocchio. Neri stivali in pelle, col tacco quadrato e una leggera zeppa nella parte anteriore, avvolgevano le gambe fino a metà polpaccio.
“Tutto bene?” chiese Chiara facendo sussultare il ragazzo, ipnotizzato dalla seducente femminilità della sua silhouette.
Luca arrossì e farfugliò qualcosa di appena comprensibile, facendo sorridere la collega.
Si misero al lavoro, in silenzio, lasciando che la musica della radio, accesa dalla nuova arrivata, riempisse la stanza.
Di tanto in tanto, Luca contemplava la donna nella sua impeccabile postura. Sembrava una regina seduta fiera sul suo trono.
Lisci capelli castani cadevano ai lati del suo viso. Gli occhiali, con montatura color melograno, incorniciavano i suoi brillanti occhi verde menta. Un filo nero di matita ornava le palpebre e faceva apparire ancor più luminoso il suo sguardo.
Labbra lunghe e sottili impreziosivano il viso dai lineamenti delicati. Immancabile lo smalto rosso scuro sulle unghie delle mani. Quest’ultimo particolare portava spesso Luca a domandarsi se quel colore vinaccia abbellisse in egual modo le unghie dei piedi, d’inverno celate al mondo.
La fioca luce invernale di metà pomeriggio segnalava che la giornata lavorativa era volta al termine. Salvo rare volte in cui pratiche urgenti costringevano agli straordinari, Luca usciva dall’ufficio alle 17 in punto, per non perdere il treno delle 17.10 nella vicina stazione della metropolitana.
Cullato dal ritmico procedere del vagone, il ragazzo fantasticava, per tutto il viaggio, sul look giornaliero della venerata collega, con particolare attenzione alle calzature che custodivano i suoi agognati piedi.
Da tempo Luca aveva smesso di vergognarsi dei suoi desideri. Consapevole e felice del suo ruolo di zerbino di ogni donna del pianeta, non aveva remore a comportarsi come tale.
Ringraziava spesso la sorte per essere finito in quell’ufficio, “comandato” da una bellissima donna matura, nipote del presidente.
“Sono il suo giovane schiavetto” proclamava fiero tra sé e sé, sorridendo al paesaggio che fuggiva via nel finestrino del vagone.
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