• Sogni ad occhi aperti

    Posted by Schiavolc on Agosto 7, 2022 at 5:46 am

    1 – SUL MIO PETTO

    L’estate ormai era quasi finita e le giornate cominciavano a rinfrescare. Avevo da un mese compiuto 18 anni e avevo da poco appreso che quel settembre mi sarei trasferito, per quanto non si sapeva, a casa di mio padre, che con mamma si era separato da ormai sei anni e – sapevo – da uno si era risposato. Mamma non aveva mai voluto rinunciare al lavoro e ora le si presentava una buona occasione di crescita, che l’avrebbe portata a Milano, a 500 km di distanza, per tutto il tempo che sarebbe stato necessario – non dato sapere quanto. E no, non era possibile andare con lei, la scuola, l’alloggio, il tempo. Tutto troppo complicato, non c’era da discutere.

    Tornare a stare con papà, l’idea non era particolarmente impressionante, lo vedevo comunque spesso e il rapporto era più che normale, senza soggezioni o problemi, lavorava molto, per il resto un tipo tranquillo, sarebbe stato anche piuttosto naturale. Se non che, non viveva da solo. Come già accennato, da qualche anno c’era anche Lei, l’avevo vista in poche occasioni, e non passava inosservata. Nicole, 38 anni, 8 meno di lui, capelli biondo-rosso, elegante, femminile, alta e snella ma morbida al tempo stesso, parlava un italiano perfetto ma era nata e cresciuta in Australia, di madre francese. Mi ero anche chiesto, non lo nascondo, chissà come si faceva da grandi a poter avere un donna così. Come si faceva poi essendo mio papà; comunque, i comfort non mancavano, e non sarebbero mancati neanche per me, nella bella casa in cui vivevano, con le stanze, il giardino enorme, la piscina e tutto quanto le completava. Mi sarei concentrato su questo e anche il disagio, come tutto nella vita, sarebbe passato e dimenticato.

    Era sabato pomeriggio quando portammo tutta la mia roba e salutai mamma. Inizia la nuova vita. Nicole si rivelò subito molto accogliente e piacevole. Disse tutte le banalità che è opportuno dire in quei frangenti e fece tutto quanto si conviene dover fare. Il pomeriggio e la sera trascorsero insieme a mio padre e a lei e filava liscio come anche fu per la domenica.
    Il lunedì naturalmente per mio padre riprendevano gli impegni di lavoro, mentre la scuola ancora non era iniziata.

    Come ho detto le giornate iniziavano a farsi più fresche, ma non ancora abbastanza da iniziare a vedere in giro calze velate e collant. Non ce lo nasconderemo, una mia debolezza – da sempre. Una mia passione, in alcuni momenti forse un’ossessione. Mi attiravano da sempre, e su quante pubblicità, immagini, episodi televisivi, scene reali avevo fantasticato. Il massimo che il mio coraggio mi aveva consentito sperimentare era quanto segue: il contatto “furtivo” con le gambe di qualche compagna di scuola che le indossava, in un caso concluso con un sonoro manrovescio, e le calze nuove, non ancora mai usate che avevo trovato in camera di mia madre e che stese sul mio braccio avevo provato ad accarezzare e strofinarmi sul viso per vedere che effetto facesse.

    E invece lei sì. Voglio dire: faceva un po’ più fresco da troppo poco tempo, ma Nicole già indossava delle calze velate persino in ambito domestico. Questo dettaglio, la sua femminilità, il suo profumo, iniziavano a turbarmi come non avevo immaginato.
    Fu quello stesso giorno che iniziò quello che io chiamo un sogno ad occhi aperti, una di quelle vicende che nella vita succedono, ma che non riesci a spiegarti fino in fondo né mentre accadono né dopo. Semplicemente accadono, e le ricordi come i momenti in cui sei stato più vivo e al tempo stesso come in un sogno, faticando a credere sia accaduto davvero.

    Nel tardo pomeriggio Nicole mi chiese se desiderassi del gelato e la raggiunsi sulla grande terrazza che dava sul giardino. Sedetti su una sedia di vimini e lei davanti a me su un divanetto, conversando con tutta calma sfilò le scarpe e raccolse le gambe accomodandole sul divanetto. Indossava un abitino color vino e calze color carne – naturale. Con il classico rinforzo più scuro all’altezza delle dita. Su questa parte delle calze femminili ho sempre fantasticato, l’ho sempre immaginata come il punto più intenso – aroma, sapore.

    Facevo fatica a seguire la pur semplice conversazione, che questa donna così elegantemente sensuale portava avanti, non curandosi di mostrarmi buona parte delle piante di quei piedi che mi sorprendevo ripetutamente a fissare contro la mia volontà, distogliendo poi lo sguardo di scatto nel timore che potesse pensare che le guardassi, non tanto le estremità ma quantomeno le gambe. Finimmo il gelato e, piuttosto goffamente le dissi che avevo bisogno di andare al bagno e poi a terminare alcuni compiti.
    “Certo vai pure, ma non in questo né in quello azzurro di sopra perché tra poco deve passare l’idraulico per dei piccoli interventi in entrambi. Vai pure in quello che uso di solito io” Disse

    Così feci recandomi nel bagno color rosa antico dove non ero mai entrato – non ne avevo motivo, senza dare alcun peso alla differenza. Mi chiusi a chiave all’interno, dopo quei minuti passati in sua compagnia era inevitabile. Ma a quel punto notai qualcosa che mi fece battere il cuore all’impazzata. Il cesto della biancheria usata. Mi vergognai profondamente sul momento, con il senso di colpa e di pudore tipico di un adolescente che inizia a conoscere le proprie pulsioni, pensando forse di essere l’unico a possederne. Non osavo sperare tanto, ma c’erano. Arrotolato, setoso, morbido, fragrante di Donna, intenso di Nicole, un paio di collant usato.
    Pochi istanti ed era su di me, sul mio naso, strofinato sul mio viso con l’avidità di chi si disseta dopo giorni di deserto. E poi fu nella mia bocca, con quel sapore che mi ero solo immaginato fino a quel giorno. E che mi regalò un’estasi superiore alle attese. Furono pochi istanti, io ebbi finito quanto dovuto e tutto fu rimesso al suo posto – nascoste le prove, tutto normale. Uscii senza dare segnali di alcun tipo, non posso garantire per il colorito che dovevo avere, ma nel corridoio non c’era comunque nessuno.

    Alla sera torno papà dal lavoro, una cena normale, tutto regolare. I miei pensieri, i miei sguardi, inutile da dire. Quello che dicevo a me stesso era soltanto questo: “Solo non farti scoprire, fai come oggi e non ci saranno problemi”.

    E poi scese la notte. Ed è qui che iniziò davvero tutto – il sogno ad occhi aperti.
    Non posso sapere che ora fosse con precisione, ma non lontano dalla mezzanotte. Le finestre erano socchiuse, l’aria era piacevole e non certo ancora davvero autunnale, suoni ancora estivi di gracidii e di grilli, la luce della luna era generosa e dopo pochi minuti di abitudine gli occhi vedevano bene nella penombra.

    Stavo in quel momento scivolando nel primo sonno e fu un momento – nella semicoscienza sentii un fruscio, un movimento felino nella stanza, un profumo oramai già inconfondibile.
    E una pressione, calda, sublime, inappellabile: prima un piede, poi l’altro, era Lei. Nicole era nella mia stanza ed era, con tutta naturalezza, salita, semplicemente, sul mio ventre ed ora troneggiava nella semioscurità sul mio petto, privando i miei polmoni di gran parte della loro aria, gravando morbidamente sul mio fragile petto di diciottenne.

    L’avevo fantasticato tante volte – non l’avevo provato mai. La componente della sensualità e dell’eccitazione erano ancora più grandi che nella fantasia, ma nella fantasia mancava tutta la parte della difficoltà fisica di sostenere il peso di una Donna, alta e meravigliosa.
    Mi lasciai sul momento scappare un lamento fisico per il soffocamento, e Lei elastica, come una pantera, si abbassò accosciata, senza scendere dal suo piedistallo fremente, e mi premette una mano sulla bocca.
    “Fai silenzio, vuoi svegliare tuo padre?”

    No davvero, non lo volevo.
    Nel frattempo il mio torace tornava a riempirsi di aria; già il mio corpo iniziava a convivere con la pressione, con il destino dello zerbino.
    E fu di nuovo in piedi, elevatasi in un momento con altrettanta elasticità. Arretrò leggermente affondando nuovamente nel ventre; ora la vedevo distintamente torreggiare su di me, i capelli voluttuosamente sciolti, mentre mi sentivo sprofondare completamente soggiogato. Poi un passo sul petto e l’altro piede fu sulla mia bocca. Come lo sentivo bene ora quel rinforzo tanto sognato, fare attrito sulla mia bocca, ad ordinare senza parole di aprirla, e accolsi quel piede velato perché potesse posare la punta sulla mia lingua e farne il suo pavimento.

    Poi mi strofinò la pianta sul viso e, abbassatasi nuovamente disse: “Che c’è Guido? Non riconosci queste calze e la saliva che ci hai lasciato sopra?”
    Non capivo più nulla – sprofondai nell’imbarazzo ma non vi indugiai: ormai che cosa importava? Che fosse quel che doveva essere, da quel momento in avanti.
    Tornò a sopraelevarsi solo per sfilarsi le calze; in tutti questi movimenti non era mai scesa per un istante dall’umile giaciglio che aveva fatto di me. Scese a quel punto dal mio corpo – la pressione tutta di un colpo fu rimossa, l’organismo ritrovo il sollievo ma la mia mente disperò – e fu per un istante accanto al mio letto. Abbandonò sul mio cuscino le calze e mi disse “Buonanotte. Riprendi le forze”.

    E se ne era andata.
    Stordito e col cuore che impazzava, rimasi con le costole e i muscoli doloranti, nella più completa estasi; certo di aver sognato, se non per quei collant – sublime trofeo -impregnati di quell’essenza che – avevo già intuito – era già diventata un laccio e un collare, che mi avrebbero incatenato senza appello.1 – SUL MIO PETTO

    L’estate ormai era quasi finita e le giornate cominciavano a rinfrescare. Avevo da un mese compiuto 18 anni e avevo da poco appreso che quel settembre mi sarei trasferito, per quanto non si sapeva, a casa di mio padre, che con mamma si era separato da ormai sei anni e – sapevo – da uno si era risposato. Mamma non aveva mai voluto rinunciare al lavoro e ora le si presentava una buona occasione di crescita, che l’avrebbe portata a Milano, a 500 km di distanza, per tutto il tempo che sarebbe stato necessario – non dato sapere quanto. E no, non era possibile andare con lei, la scuola, l’alloggio, il tempo. Tutto troppo complicato, non c’era da discutere.

    Tornare a stare con papà, l’idea non era particolarmente impressionante, lo vedevo comunque spesso e il rapporto era più che normale, senza soggezioni o problemi, lavorava molto, per il resto un tipo tranquillo, sarebbe stato anche piuttosto naturale. Se non che, non viveva da solo. Come già accennato, da qualche anno c’era anche Lei, l’avevo vista in poche occasioni, e non passava inosservata. Nicole, 38 anni, 8 meno di lui, capelli biondo-rosso, elegante, femminile, alta e snella ma morbida al tempo stesso, parlava un italiano perfetto ma era nata e cresciuta in Australia, di madre francese. Mi ero anche chiesto, non lo nascondo, chissà come si faceva da grandi a poter avere un donna così. Come si faceva poi essendo mio papà; comunque, i comfort non mancavano, e non sarebbero mancati neanche per me, nella bella casa in cui vivevano, con le stanze, il giardino enorme, la piscina e tutto quanto le completava. Mi sarei concentrato su questo e anche il disagio, come tutto nella vita, sarebbe passato e dimenticato.

    Era sabato pomeriggio quando portammo tutta la mia roba e salutai mamma. Inizia la nuova vita. Nicole si rivelò subito molto accogliente e piacevole. Disse tutte le banalità che è opportuno dire in quei frangenti e fece tutto quanto si conviene dover fare. Il pomeriggio e la sera trascorsero insieme a mio padre e a lei e filava liscio come anche fu per la domenica.
    Il lunedì naturalmente per mio padre riprendevano gli impegni di lavoro, mentre la scuola ancora non era iniziata.

    Come ho detto le giornate iniziavano a farsi più fresche, ma non ancora abbastanza da iniziare a vedere in giro calze velate e collant. Non ce lo nasconderemo, una mia debolezza – da sempre. Una mia passione, in alcuni momenti forse un’ossessione. Mi attiravano da sempre, e su quante pubblicità, immagini, episodi televisivi, scene reali avevo fantasticato. Il massimo che il mio coraggio mi aveva consentito sperimentare era quanto segue: il contatto “furtivo” con le gambe di qualche compagna di scuola che le indossava, in un caso concluso con un sonoro manrovescio, e le calze nuove, non ancora mai usate che avevo trovato in camera di mia madre e che stese sul mio braccio avevo provato ad accarezzare e strofinarmi sul viso per vedere che effetto facesse.

    E invece lei sì. Voglio dire: faceva un po’ più fresco da troppo poco tempo, ma Nicole già indossava delle calze velate persino in ambito domestico. Questo dettaglio, la sua femminilità, il suo profumo, iniziavano a turbarmi come non avevo immaginato.
    Fu quello stesso giorno che iniziò quello che io chiamo un sogno ad occhi aperti, una di quelle vicende che nella vita succedono, ma che non riesci a spiegarti fino in fondo né mentre accadono né dopo. Semplicemente accadono, e le ricordi come i momenti in cui sei stato più vivo e al tempo stesso come in un sogno, faticando a credere sia accaduto davvero.

    Nel tardo pomeriggio Nicole mi chiese se desiderassi del gelato e la raggiunsi sulla grande terrazza che dava sul giardino. Sedetti su una sedia di vimini e lei davanti a me su un divanetto, conversando con tutta calma sfilò le scarpe e raccolse le gambe accomodandole sul divanetto. Indossava un abitino color vino e calze color carne – naturale. Con il classico rinforzo più scuro all’altezza delle dita. Su questa parte delle calze femminili ho sempre fantasticato, l’ho sempre immaginata come il punto più intenso – aroma, sapore.

    Facevo fatica a seguire la pur semplice conversazione, che questa donna così elegantemente sensuale portava avanti, non curandosi di mostrarmi buona parte delle piante di quei piedi che mi sorprendevo ripetutamente a fissare contro la mia volontà, distogliendo poi lo sguardo di scatto nel timore che potesse pensare che le guardassi, non tanto le estremità ma quantomeno le gambe. Finimmo il gelato e, piuttosto goffamente le dissi che avevo bisogno di andare al bagno e poi a terminare alcuni compiti.
    “Certo vai pure, ma non in questo né in quello azzurro di sopra perché tra poco deve passare l’idraulico per dei piccoli interventi in entrambi. Vai pure in quello che uso di solito io” Disse

    Così feci recandomi nel bagno color rosa antico dove non ero mai entrato – non ne avevo motivo, senza dare alcun peso alla differenza. Mi chiusi a chiave all’interno, dopo quei minuti passati in sua compagnia era inevitabile. Ma a quel punto notai qualcosa che mi fece battere il cuore all’impazzata. Il cesto della biancheria usata. Mi vergognai profondamente sul momento, con il senso di colpa e di pudore tipico di un adolescente che inizia a conoscere le proprie pulsioni, pensando forse di essere l’unico a possederne. Non osavo sperare tanto, ma c’erano. Arrotolato, setoso, morbido, fragrante di Donna, intenso di Nicole, un paio di collant usato.
    Pochi istanti ed era su di me, sul mio naso, strofinato sul mio viso con l’avidità di chi si disseta dopo giorni di deserto. E poi fu nella mia bocca, con quel sapore che mi ero solo immaginato fino a quel giorno. E che mi regalò un’estasi superiore alle attese. Furono pochi istanti, io ebbi finito quanto dovuto e tutto fu rimesso al suo posto – nascoste le prove, tutto normale. Uscii senza dare segnali di alcun tipo, non posso garantire per il colorito che dovevo avere, ma nel corridoio non c’era comunque nessuno.

    Alla sera torno papà dal lavoro, una cena normale, tutto regolare. I miei pensieri, i miei sguardi, inutile da dire. Quello che dicevo a me stesso era soltanto questo: “Solo non farti scoprire, fai come oggi e non ci saranno problemi”.

    E poi scese la notte. Ed è qui che iniziò davvero tutto – il sogno ad occhi aperti.
    Non posso sapere che ora fosse con precisione, ma non lontano dalla mezzanotte. Le finestre erano socchiuse, l’aria era piacevole e non certo ancora davvero autunnale, suoni ancora estivi di gracidii e di grilli, la luce della luna era generosa e dopo pochi minuti di abitudine gli occhi vedevano bene nella penombra.

    Stavo in quel momento scivolando nel primo sonno e fu un momento – nella semicoscienza sentii un fruscio, un movimento felino nella stanza, un profumo oramai già inconfondibile.
    E una pressione, calda, sublime, inappellabile: prima un piede, poi l’altro, era Lei. Nicole era nella mia stanza ed era, con tutta naturalezza, salita, semplicemente, sul mio ventre ed ora troneggiava nella semioscurità sul mio petto, privando i miei polmoni di gran parte della loro aria, gravando morbidamente sul mio fragile petto di diciottenne.

    L’avevo fantasticato tante volte – non l’avevo provato mai. La componente della sensualità e dell’eccitazione erano ancora più grandi che nella fantasia, ma nella fantasia mancava tutta la parte della difficoltà fisica di sostenere il peso di una Donna, alta e meravigliosa.
    Mi lasciai sul momento scappare un lamento fisico per il soffocamento, e Lei elastica, come una pantera, si abbassò accosciata, senza scendere dal suo piedistallo fremente, e mi premette una mano sulla bocca.
    “Fai silenzio, vuoi svegliare tuo padre?”

    No davvero, non lo volevo.
    Nel frattempo il mio torace tornava a riempirsi di aria; già il mio corpo iniziava a convivere con la pressione, con il destino dello zerbino.
    E fu di nuovo in piedi, elevatasi in un momento con altrettanta elasticità. Arretrò leggermente affondando nuovamente nel ventre; ora la vedevo distintamente torreggiare su di me, i capelli voluttuosamente sciolti, mentre mi sentivo sprofondare completamente soggiogato. Poi un passo sul petto e l’altro piede fu sulla mia bocca. Come lo sentivo bene ora quel rinforzo tanto sognato, fare attrito sulla mia bocca, ad ordinare senza parole di aprirla, e accolsi quel piede velato perché potesse posare la punta sulla mia lingua e farne il suo pavimento.

    Poi mi strofinò la pianta sul viso e, abbassatasi nuovamente disse: “Che c’è Guido? Non riconosci queste calze e la saliva che ci hai lasciato sopra?”
    Non capivo più nulla – sprofondai nell’imbarazzo ma non vi indugiai: ormai che cosa importava? Che fosse quel che doveva essere, da quel momento in avanti.
    Tornò a sopraelevarsi solo per sfilarsi le calze; in tutti questi movimenti non era mai scesa per un istante dall’umile giaciglio che aveva fatto di me. Scese a quel punto dal mio corpo – la pressione tutta di un colpo fu rimossa, l’organismo ritrovo il sollievo ma la mia mente disperò – e fu per un istante accanto al mio letto. Abbandonò sul mio cuscino le calze e mi disse “Buonanotte. Riprendi le forze”.

    E se ne era andata.
    Stordito e col cuore che impazzava, rimasi con le costole e i muscoli doloranti, nella più completa estasi; certo di aver sognato, se non per quei collant – sublime trofeo -impregnati di quell’essenza che – avevo già intuito – era già diventata un laccio e un collare, che mi avrebbero incatenato senza appello.

    Schiavolc replied 2 years, 4 months ago 1 Member · 0 Replies
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